Dallo «ius migrandi» al reato di immigrazione
Agli inizi del XVI secolo i giuristi europei si cimentarono nella ricerca di titoli di legittimazione giuridica della conquista del Nuovo Mondo: risale a quell’epoca l’elaborazione dello ius migrandi, uno dei diritti che, come ha scritto Luigi Ferrajoli, erano proclamati astrattamente uguali e universali allorché erano concretamente disuguali e asimmetrici, essendo impensabile la migrazione degli indios in Occidente.Ricordare oggi le origini dello ius migrandi può servire a mettere a fuoco il segno delle risposte date ai fenomeni migratori della nostra epoca. Sulla base dell’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo alcuni giuristi hanno cercato di ricostruire un diritto di circolazione transnazionale, uno ius migrandi per i nostri tempi, ma non si è andati oltre lo sforzo dottrinale. La condizione giuridica del migrante resta infatti sospesa tra il riconosciuto diritto di lasciare qualsiasi paese e il divieto di migrare nei paesi dell’Occidente: un paradosso che, tuttavia, fotografa bene la realtà della condizione dei migranti, una condizione di sospensione ben rappresentata da quei luoghi (i mari che circondano le nostre coste, prima di tutto) in cui la negazione dello ius migrandi si traduce in tragedie che qualche volta riescono a catturare lo sguardo altrimenti distratto delle nostre società.E quando il suo lungo viaggio non finisce in una tragedia, il migrante – l’irregolare, ma anche quello regolare – è destinato a conoscere una nuova condizione di sospensione, in bilico tra la sua aspirazione all’integrazione e la spinta verso la clandestinizzazione, una spinta che gli orientamenti più recenti delle politiche del diritto stanno ulteriormente esasperando. Alla base di questi orientamenti vi è una doppia equazione: l’immigrazione, in generale, come problema di ordine pubblico; l’immigrazione irregolare come sinonimo di criminalità.I risultati fallimentari delle politiche guidate da questa doppia mistificazione sono sotto gli occhi di tutti: l’assoluta ineffettività di un sistema degli ingressi incentrato sull’assurda pretesa dell’«incontro a livello planetario» tra domanda e offerta di lavoro; un governo dell’immigrazione affidato, in realtà, da un lato, a sanatorie ufficiali ed eccezionali e, dall’altro, a sanatorie ufficiose e periodiche, ossia all’utilizzo dei meccanismi di ammissione imperniati sui decreti flussi per consentire (non, come pretenderebbe la legge, l’ingresso di chi si trova all’estero al momento della richiesta di assunzione del datore di lavoro, ma) la prosecuzione legale della permanenza dello straniero già irregolarmente presente in Italia; la realtà della condizione di irregolarità del migrante come passaggio necessario verso la condizione di legalità.A fronte di questo bilancio fallimentare il diritto speciale dell’immigrazione irregolare si espande ulteriormente e conosce nuove, più gravi, torsioni: è in questa direzione che si muove la proposta volta alla criminalizzazione di chi, essendo magari scampato a un naufragio, fa ingresso ovvero si trattiene da irregolare nel territorio dello Stato.La finalità proclamata del nuovo reato di ingresso e soggiorno illegale è l’effettività degli allontanamenti, ma rispetto ad essa è manifestamente inutile, essendo destinato ad operare in un’area di casi già integralmente coperta dall’espulsione amministrativa. Ma l’introduzione del nuovo reato (approvata dal Parlamento il 2 luglio scorso, ndr) non resterà senza effetti: costruirà ope legis (per effetto di legge) la persona del migrante irregolare come criminale, consolidando ulteriormente nel senso comune la falsa equazione immigrazione/criminalità; inoltre, farà terrà bruciata intorno ai migranti irregolari etichettati come criminali e spingerà l’ordinamento verso il piano inclinato di una razionalità orientata alla disuguaglianza, ossia alla costruzione di doppi livelli di cittadinanza. Tutto questo non riguarda solo gli stranieri, ma la qualità della nostra democrazia. Diceva Luigi Di Liegro che nulla come la normativa sugli stranieri ci dice in maniera profonda che cosa siamo. Che cosa siamo e – possiamo aggiungere – che cosa stiamo diventando.Angelo Caputo
A margine, vorrei puntualizzare un aspetto.
L'immigrato clandestino ha un posto fondamentale in questa nostra società che pare respingerlo.
Siamo un Paese che si è abituato ad un certo livello di benessere; ci sono conquiste civili e sindacali che garantiscono i diritti dei lavoratori, ma questi diritti non sono funzionali al sistema di capitale, che chiede incessantemente profitti più alti e costi più bassi. Il capitale mangia voracemente ricchezza, anche se all'apparenza ne produce. Le nostre aziende europee, già da tempo, chiudono stabilimenti qui per aprirne in Paesi dove la manodopera costa una pipa di tabacco, ed è composta preferibilmente da persone senza diritti sindacali, meglio se donne o bambini. Nei casi in cui la delocalizzazione non è possibile (agricoltura, edilizia, servizi...) l'abbattimento dei costi si ottiene utilizzando persone ricattabili, che possono essere pagate una miseria, la cui vita è sospesa ad un sì od un no. I clandestini sono questi soggetti ideali.
Angelo Caputo parla di "due livelli di cittadinanza", ed è esattamente così: abbiamo reintrodotto in modo surrettizio la schiavitù. Ed è di questi schiavi che la nostra economia si serve per conservare il nostro standard di benessere.
(nell'immagine: schiavi al lavoro ritratti su una banconota da 100 $ degli Stati Confederati d'America, 1862)
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