18.7.08

La mia Barcellona




Una settimana di lavoro a Barcellona.
Ho trovato la città letteralmente invasa dai turisti. Ma cos'è quella che si offre ai loro occhi? E' una immagine di città lucida, plastificata, perfetta ad incarnare il cliché dell'ibericità da cartolina: sangria, divertimento, tirar tardi. Fiesta sicura, con preservativo. Muri puliti, vetrine anonime, negozi uguali a quelli di Londra Milano Zurigo, pieni di oggetti scialbi, senza personalità, originalità, colore, oppure paccottiglia pseudo-orientale. Si mangia panini in locali sterilizzati, oppure sciape insalate in ossequio al naturismo di moda. Anche l'aria non ha altro odore che lo scarico delle auto.








Ma la mia Barcellona non è morta, solo si fa cercare fuori da quelle quattro vie percorse dalla massa degli stranieri in vacanza. La ritrovo nei gruppetti cospiratori seduti sui gradini di Sant Felipe Neri, nel sorriso suadente e nella carezza lieve di una giovane prostituta, nelle onde tiepide di un bagno notturno, acqua matriciale, e nel fiato marcio del porto, che mi rincuora e mi sicura nel simbolo sensibile della fine comune, dolcemente naturale, delle cose e degli uomini, dei sentimenti, delle invenzioni. Barcellona è le sedie di alluminio fuori dai bar della Rambla del Raval, la variopinta odorosa umanità del quartiere di Sant Pau, le sue donne che attendono, i ragazzi e le ragazze sulla porta di uno squat, teneri e duri, che si passano la canna mattinale, i piccioni che cercano refrigerio in una pozzanghera fangosa del'Hospital de la Santa Creu, i 3 ragazzi pasoliniani, ingenui e sfacciati, che discutono di amore e ragazze tra le birre, Barcellona è anche le alici fritte di Josepa, l'omosessuale che incrociandomi sulle ramblas mi fa la corte con occhio languido, è perdersi negli infiniti dettagli di un'opera di Gaudì o del Palau de la Musica... Barcellona esiste ancora.